articolo che ho pubblicato su LetteraDonna/Elle.
Luglio 2017. Sono a un matrimonio. Sono presenti entrambi i genitori della sposa: il padre 1, quello ‘naturale’, e il padre 2, secondo marito della madre, che l’ha cresciuta da quando era piccina. La sposa si fa accompagnare all’altare dalla madre e dalla nonna, un omaggio insolito alle ‘madri’ della sua vita, inaspettato in un contesto, quello della famiglia dello sposo, di matrice fortemente patriarcale. Dopo la chiesa, il lancio del riso, le foto, la cena, è il momento delle danze. L’aria è fresca, siamo immersi nel verde delle colline venete. La sposa, Sara, è giovane, compirà tra pochi giorni 27 anni. È bellissima nel suo abito bianco e si muove radiosa tra gli invitati. A un certo punto il dj annuncia una sorpresa e il caos diventa un brusio. La sposa si avvicina al padre 2, lo prende per mano e lo porta al centro del prato. «Balliamo!» gli dice. «Solo noi due?», chiede lui stupito. «Solo noi due», risponde lei convinta. Le note sono quelle di A modo tuo, la voce è di Ligabue.
Eccoli lì, padre e figlia, abbracciati e commossi come siamo tutti lì intorno, tutti meno uno, quel padre ‘naturale’ che si muove nervoso in disparte e che se ne andrà arrabbiato dopo il ballo non senza aver attribuito colpe e incapace di fare i conti con le proprie responsabilità. Uso volutamente questo termine, perché la genitorialità è amore e senso di responsabilità. Quell’amore che fa sì che prendendosi cura dell’altro sia una gioia, quella responsabilità che vuol dire l’impegno di educare, accompagnare e indicare percorsi e valori. La sposa non è un’attivista femminista, è in tutt’altre faccende affaccendata. Eppure quel suo riconoscimento pubblico, e dunque politico, alla genitorialità più autentica è un gesto simbolico potente che infrange quel ‘sangue del mio sangue’ che non significa niente nella vita reale.
Spesso dico che dobbiamo imparare dalle ragazze, lasciarci sorprendere dalla loro forza e dal loro coraggio. Lucio Battisti cantava: «Non è questione di cellule, ma della scelta che si fa». Quel padre 1 ha scelto di non curarsi col dovuto impegno di quella figlia: non le ha dedicato il giusto tempo, ha speso per sé il denaro che avrebbe dovuto versare per il mantenimento, non l’ha aiutata a fare i compiti così come non è andato ai colloqui a scuola né alle partire di pallavolo, non ha imposto regole facendosi detestare, non le ha dato consigli per l’università. Si è proposto con maggior assiduità quando l’autonomia dei figli rende tutto più facile: qualche regalo e qualche parola seducente per appagare il bisogno che tutti abbiamo di sentirci amati.
Ma la responsabilità non è soltanto una scelta razionale. Quel padre 1 non ha sentito dentro di sé lo slancio d’amore che risveglia, stimola e alimenta tutti i giorni la responsabilità. Soltanto l’amore trasforma quelle che potrebbero sembrare rinunce in un impegno appagante, soltanto l’amore rende possibile trovare risorse pratiche ed emotive per affrontare insieme difficoltà e ostacoli e ci fa sentire un tutt’uno con i figli. E allora brava Sara che col suo gesto dirompente ha detto al mondo che l’amore si dimostra un po’ tutti i giorni, mese dopo mese, anno dopo anno, e non a spot, quando ne hai voglia. Che ha spezzato le catene del ‘sangue del mio sangue’ e ha messo al centro la relazione, ha messo al primo posto chi il padre l’ha fatto, chi genitore è stato.