articolo che ho pubblicato su LetteraDonna/Elle.

Accogliere un coming out omosessuale può essere più o meno difficile per un genitore, ma di fronte a un coming out transgender il mondo può crollarti addosso.
Essere genitori non è mai facile. Durante i miei interventi nelle scuole superiori ho incontrato spesso anche tra gli adulti una discreta confusione tra identità di generee orientamento sessuale. Mentre aspettiamo che la scuola si adegui alla necessità di educarci a diventare cittadini più consapevoli e sereni, le difficoltà sono ancora molte nel riconoscere la naturalezza delle differenze e quando si sente il termine trans non sempre è facile capire cosa fare e cosa dire, perché ancora non sappiamo cosa pensare. Ne ho parlato con Elisabetta che vive a Parma e ha una figlia che vuole diventare figlio.

DOMANDA: Mi racconti il coming out di tua figlia?
RISPOSTA: Nel nostro caso ce ne sono stati due; nel primo aveva 15 anni, aveva già avuto dei ragazzi ma io la vedevo inquieta e fortemente attaccata ad una sua amica. Sono stata io a dirle: «Non so se mi sbaglio ma credo che ti piaccia la tua amica». Anche se lo immaginavo, quando lei ha annuito sono rimasta turbata.
D: Cosa le hai detto?
R:
Che si trattava di una cosa di cui non sapevo niente ma che l’avrei affrontata. Ero confusa ma lo era anche lei, per me era importante farle capire che c’ero, che non era sola. Poi le ho detto anche cose che non si dovrebbero dire, di lasciare aperta la porta del cuore, di non parlarne con nessuno e di tenerlo come qualcosa tra me e lei, che poteva trattarsi di una fase. Litigavamo tantissimo perché a lei il mio atteggiamento stava stretto.
D: Ti sei chiesta «dove ho sbagliato»?
R: Subito. Ce lo domandiamo tutti, soprattutto noi donne; ci è stato insegnato che la cura è affar nostro e quando le cose non rispondono alle aspettative della collettività mettiamo in crisi la nostra capacità di essere brave madri. All’inizio mi sono fatta carico del suo coming out senza condividerlo in famiglia perché volevo fosse lei a farlo con i suoi tempi ma sia io che lei avevamo bisogno di parlarne anche su fronti diversi, mi sentivo sola, così ho trovato Agedo (associazione di parenti, amici e familiari delle persone Lgbt, ndr).
D: E hai scoperto di non essere sola…
R:
Certo, ma soprattutto ho capito che ero io a dover tenere aperta la porta del cuore e del cervello e mettere in discussione la mia visione del mondo, non lei. Ero io che dovevo capire il suo diritto di esistere per ciò che è e vivere apertamente la sua vita, che dovevo essere orgogliosa della sua fiducia. Da questi passi importanti, dal nostro amore che è una relazione in continuo mutamento ci siamo sentite più forti e lei ne ha parlato in famiglia e a scuola.
D: E come è andata?
R:
Con il padre bene, con il fratello malissimo, non l’ha mai accettata e ancora oggi i rapporti sono inesistenti. A scuola invece tutto ok, aveva amicizie che si sono rafforzate e sostegno nella classe anche da parte di alcune insegnanti che sapevano. È stata per loro un’occasione di entrare in un mondo che non conoscevano, si parla di 10 anni fa.
D: E il secondo coming out?
R: Un paio di anni fa mi disse: «Mamma sono trans, voglio abitare un corpo che mi permetta di vivere bene la mia vita. Non mi sento inquadrata totalmente in un genere, sto iniziando a pensare a un percorso in movimento». Mi spiegò che la sua parte femminile e femminista l’avrebbe resa un uomo migliore. Ci siamo abbracciate, abbiamo pianto insieme. Lei aveva paura di ferirmi, io volevo che capisse subito che l’amavo tantissimo anche se in quel momento mi sentivo morire. È stata la doccia più gelata della mia vita. Per un mese ho fatto lunghi giri in bicicletta piangendo tutto il dolore e l’ansia che avevo dentro.
D: Cosa ti spaventava di più?
R:
L’impressione di essere sola perché di omosessualità sapevo molto ma sulle persone trans non binarie e su tante altre realtà avevo pochi strumenti di conoscenza. E conoscere è fondamentale per cominciare a mettersi in discussione e capire.
D: E poi?
R:
E poi dopo quel mese ho scelto lei. Mi sono stufata di piangere e sentirmi fredda dentro e mi sono sciolta nei suoi abbracci pensando che alla vita ogni tanto bisogna dare un tocco di leggerezza. Ho quindi deciso che mi sarei impegnata al suo fianco per condividere una battaglia che stavo iniziando a capire e che avevo l’opportunità di far conoscere. Anche in Agedo questi temi cominciano ad essere più presenti grazie alle persone che portano le loro esperienze. La condivisione diventa un terreno molto fertile sia per la comprensione che per l’agire politico.
D: Hai trovato gli strumenti?
R: Diciamo di sì, anche se sono strumenti sempre in movimento. L’approccio alla comprensione delle persone non binarie è complesso perché destrutturando i ruoli di genere e uscendo dalla dicotomia maschio- femmina si mette in discussione tutto il proprio vissuto nel contesto esistente. È bene che se ne parli. Mi capita spesso dopo qualche incontro o convegno che si organizza di ricevere delle richieste di aiuto da parte di genitori che inizialmente sono smarriti o disperati e trovano in noi di Agedo un sostegno da parte di chi ci è ha già passato e ha superato positivamente le esperienze.
D: Qual è stata la tua paura maggiore?
R: Che qualcuno le potesse fare del male e all’inizio il timore della medicalizzazione, la pericolosità di alcuni interventi, di cose che avrebbero potuto in qualche modo ferire il suo corpo. Un corpo che tu genitore ami per quello che è. Per me lei è bellissima e mi spaventava l’idea che qualcuno potesse cambiarla. Poi ho capito che anche la fisicità deve essere vissuta nel miglior modo possibile e che la libertà di autodeterminarsi è un valore fondante della vita.
D: A che punto è del percorso?
R: Oggi veste nel reparto di abbigliamento maschile, ci sarà l’assunzione di ormoni per mascolinizzarsi ed essere riconosciuta socialmente come uomo continuando però a non riconoscersi nel binarismo di genere. Ha scelto un nuovo nome, neutro, e appena possibile inizierà l’iter per cambiare i documenti. Purtroppo per fare questo ci si deve rivolgere ai tribunali visto che la legge non tutela le persone che vogliono fare questo percorso senza arrivare alla completa riassegnazione del sesso ed è davvero molto ingiusto.
D: Tu ne parli ancora come ‘figlia’, sarà sempre così per te?
R:
Dovrei parlarne al maschile, questo è l’obiettivo, se mi permette a volte di chiamarla ‘figlia’ sa che questo significa anche tener presente la sua storia femminile che lei stessa riconosce.
D: Come hanno reagito le tue amiche del cuore?
R:
Bella domanda. Mi hanno ascoltata ma non ne parlano mai. Mi parlano di sé, delle loro storie familiari ma c’è una sorta di paura a sconfinare in qualcosa di cui poco si sa o che magari si attribuisce alla moda del momento. Ne parlo io però. Le nuove persone che incontro sono molto più curiose.
D: Cosa ti senti di dire a un genitore in crisi?
R:
Che non bisogna vergognarsi di chiedere aiuto se ci si sente in difficoltà. So bene che ci troviamo impreparati, che per questa società esiste solo il genere maschile dominate e a seguire quello femminile, entrambi eterosessuali: niente di più sbagliato. Quando ho partorito i miei figli nessuno mi ha mai detto che avrebbero avuto meno diritti se femmina e meno ancora se lesbica o gay e meno ancora se con una differente identità di genere. Mi viene in mente una donna intersessuale che mi disse: «Se i genitori fossero realmente informati non darebbero il consenso per la rettificazione di sesso alla nascita dei loro figli, sono vere e proprie mutilazioni genitali». Lei aveva attraversato un inferno; i genitori si fidano dei medici ma è importante e giusto che a decidere siano figlie o figli quando consapevoli della propria identità.
D: Mettersi in discussione è molto faticoso?
R: Ho dovuto lavorare molto su me stessa, ancora lo faccio e non è sempre facile ma oggi sono una persona più consapevole della vita. Il mondo è davvero un arcobaleno di diversità.
D: L’amore non basta?
R: Bisogna capire che è un sentimento vasto. Amare significa anche trovare il coraggio di venire allo scoperto, sostenere figlie e figli, non lasciarli soli e ricambiare la loro fiducia. Capire con loro l’importanza di esistere per ciò che si è. Aiutarli nella battaglia per il diritto alla felicità, a una progettualità di lavoro e di vita, a formare famiglie ed essere genitori se lo vorranno.
D: Come ti immagini e cosa vorresti per il suo futuro?
R: C’è molto da fare, da costruire e da distruggere. Spero che questa società acceleri il ritmo dei passi in avanti perché ogni giorno ci sono nuovi coming out e come Agedo l’impegno è quello di lottare insieme per avere diritti per tutti. Mia figlia lavora il fine settimana come cameriere, poco tempo fa un cliente le ha chiesto se era maschio o femmina; in questa domanda c’è tutta la violenza verbale e psicologica che troppo spesso le persone visibilmente non conformi subiscono. Vorrei delle leggi che tutelino i nostri figli e le nostre figlie per stabilire tutele giuridiche e indicare una rotta da condividere. La nostra vita non deve essere definita dalla società in cui viviamo ma dal modo in cui noi vogliamo sfidare questa società e cambiarla.

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