articolo che ho pubblicato su LetteraDonna/Elle.
Lo stereotipo che associa il transgenderismo alla prostituzione è ancora molto forte nel nostro Paese e lo sguardo quasi sempre voyeuristico, provinciale e volgare proposto dai media di certo non aiuta. Anche l’utilizzo dei termini è spesso confuso: capita ad esempio che, in riferimento alla stessa persona, sul giornale venga utilizzato sia l’articolo maschile che quello femminile.
D’altronde è soltanto del 2015 la sentenza della Cassazione con cui la Rete Lenford (avvocatura per i diritti Lgbt) ha ottenuto il riconoscimento al diritto al cambio del sesso e del nome all’anagrafe senza l’imposizione della chirurgia. Una decisione che, di fatto, mette al centro innanzitutto il benessere dell’individuo. L’intervento, in questo senso, diventa solo un eventuale ausilio per raggiungerlo, sempre nel rispetto dei diritti umani fondamentali. Ma se questo è risultato importante sul piano giuridico, un alone di mistero avvolge ancora le persone trans a livello sociale. La barriera della diffidenza e del timore nei loro confronti (ovvero la transfobia) è ancora alta e si ripercuote pesantemente sulle possibilità di inserimento nel mondo del lavoro.
A questo vanno aggiunte le difficoltà per chi intraprende i percorsi di transizione ‘MtoF‘ (acronimo dall’inglese Male to Female, dal maschile al femminile) o ‘FtM‘ (dal femminile al maschile), solo parzialmente sostenuti dal servizio sanitario nazionale. In particolare, per le MtF le terapie farmacologiche e chirurgiche sono molto complesse e costose e se non c’è una famiglia in grado di dare un contributo alle spese, diventano necessari grossi sacrifici, economici e non solo.
Morena Rapolla, avvocata, mi racconta di essersi sottoposta all’intervento chirurgico in Thailandia, perché «in Italia le tecniche operatorie sono primitive e non garantiscono la qualità degli interventi». Questo significa ulteriori costi da sostenere e un aggravarsi della discriminazione di classe tra chi può permettersi di accedere all’operazione e chi no, oltre a un aumento di quello che definisce «lo stillicidio sui marciapiedi», e che non vuole definire ‘lavoro’ bensì ‘fonte di sostentamento’.
IN BALIA DEL CASO E DEGLI STEREOTIPI
«Molto dipende dal ceto sociale in cui si cresce», spiega Antonia Monopoli, responsabile dello sportello trans di Ala Milano Onlus, che offre ascolto, orientamento e consulenza per l’inserimento nel mondo del lavoro: «L’aiuto economico della famiglia per sostenere i costi sanitari è fondamentale e la possibilità di accesso agli studi offre maggiori strumenti e opportunità di impiego».
Mi dice che spesso una trans MtF cerca occupazioni tradizionalmente più femminili quali estetista, parrucchiera, stilista, mentre un trans FtM si propone più facilmente come carpentiere, elettricista, ingegnere meccanico. Questo perché sono ancora forti gli stereotipi che dividono le professioni in maschili e femminili: li combattiamo da sempre ma, per alcune persone, si rivelano indispensabili alla propria affermazione sociale nel genere a cui sentono di appartenere.
Oltre a questi elementi soggettivi di scelta ci si scontra poi con i tabù da parte di chi assume. Se il disvelamento avviene quando la persona ha già un impiego tutto dipende dall’ambiente e dai singoli: «In una azienda seria il direttore comunica il cambio del nome con una circolare ed organizza una riunione in cui il soggetto può esporre la propria esperienza. Questo è molto importante per l’equilibrio psicofisico della persona e il suo rendimento», spiega Monopoli.
Ma nella maggior parte dei casi così non è e tutto viene lasciato al caso e ai comportamenti dei singoli: «Può capitare che dei colleghi ti evitino o che qualcuno con cui ti sei confidata ti crei dei problemi se sopraggiungono dei dissapori. A volte da un giorno all’altro ti ritrovi da commessa a magazziniera senza che il datore di lavoro ti abbia inviato alcuna comunicazione».
O C’È CRISI O C’ È MOBBING
Le discriminazioni sono all’ordine del giorno. Antonia mi porta alcuni esempi: una ragazza avvisa l’azienda di aver avviato la transizione MtF e chiede di poter indossare la divisa femminile. «Impossibile almeno fino a che non si sottoporrà all’intervento chirurgico ai genitali», le rispondono. L’intervento della Cigl costringe il titolare del negozio ad accettare la richiesta ma dopo pochi mesi lei viene licenziata. «Colpa della crisi», le dicono.
Un’altra ragazza, impiegata presso un grossista di fiori, si vede ridurre lentamente l’orario di lavoro fino a due giorni la settimana, condizione impossibile da accettare per arrivare alla fine del mese. Anche lì, «colpa della crisi».
«A volte il declassamento è così graduale che ti porta a licenziarti mettendo in atto un vero e proprio mobbing», spiega la responsabile dello sportello trans, che precisa: «Ad essere discriminate sono soprattutto le MtF, cioè chi affronta la transizione a un ruolo socialmente sottoposto al primo». Più rara invece la discriminazione per chi intraprende il passaggio FtM, «che comunque incontrerà il rischio di sentirsi dire ‘Sei un mezzo uomo’ o ‘Non sarai mai un uomo’».
«A discriminare sono quasi sempre i maschi solo raramente le femmine», aggiunge. D’altronde, discrimina chi è abituato ad occupare il piedistallo dei privilegi.
LA PROSTITUZIONE COME NON-SCELTA
Come detto, quando non ci sono strumenti per affrontare i costi sanitari, si apre la strada della prostituzione. Ne parlo con Nadia, che mi racconta di aver iniziato proprio per affrontare i costi delle terapie ormonali e l’intervento di chirurgia al seno: «Mi dovevo mantenere, pagare le cure, non avevo altra scelta. All’inizio era un gioco, ma ti rendi conto presto che non è così, che sei costretta ad andare con chi non ti piace, che ti devi adeguare alle richieste, che il tuo corpo viene sfruttato; ti prende presto la malinconia. Anche se smetti le conseguenze emotive te le porti dentro, chi dice che è un lavoro come un’altro si è costruito una corazza, come ho fatto io».
Nadia ha dovuto lasciare la propria città e ricominciare da zero: «Mi hanno cacciato di casa a 16 anni e così ho lasciato la scuola. A ripensarci, un grave errore. Dormivo dove capitava, nell’auto di un’amica o in camera ospite di un’altra, spesso nella soffitta di mia nonna, di nascosto dal nonno però, fascista, che diceva sempre: ‘Se ci fosse ancora Mussolini vedi che fine facevi’».
A 20 anni Nadia ha lasciato la sua città del Sud. I genitori le chiedevano di accontentarsi di essere omosessuale, solo così avrebbe potuto trovare lavoro. «Ma io non potevo reprimere la mia natura». Cinque anni dopo però Nadia è tornata a casa per mantenere la promessa di accudire la nonna che l’aveva sempre sostenuta nelle sue scelte. Oggi ha riallacciato i rapporti con il nonno, con i genitori e con chi una volta la considerava un’esibizionista.
Nadia non intende intervenire sul proprio corpo con un intervento agli organi genitali: «Io mi sento bene così, sono una donna transgender, mi piacciono gli uomini e ho relazioni sessuali appaganti». Vive una quotidianità serena. «I tempi sono cambiati non ti gridano più frocio per strada, ti rispettano quando ti incontrano in giro o mentre fai la spesa» dice. Sul lavoro invece è tutto più difficile, «soprattutto se hai quasi 50 anni, sei senza diploma e il tuo Paese è in crisi». Per Nadia la prostituzione oggi rende molto meno. «Con l’ingresso in Italia di tante straniere le tariffe si sono abbassate perché in strada ci si prostituisce anche per 15, 20 euro e di conseguenza anche chi lavora in appartamento deve scendere con le pretese».
Mi dice che oggi i clienti vanno più di fretta: «Si fermano dieci minuti al massimo, pochi rimangono almeno un’ora, magari per parlare. Ormai lo fanno solo gli affezionati, talvolta si gioca a fare le amiche, vogliono indossare calze a rete e abiti da donna; sono quasi tutti sposati, mai lo diresti vendendoli da fuori».
I tempi sono cambiati anche perché molti omosessuali o trans che 30 anni fa ancora si sposavano per rispondere alle aspettative sociali, oggi sono più liberi di fare altre scelte, di trovare un lavoro che rispetti il proprio talento e le proprie aspirazioni, di ribellarsi alla cultura bigotta che preferisce negare i loro desideri.
I tempi sono cambiati anche perché Nadia oggi ha un nome femminile sul proprio documento e questo ha molto a che fare con la propria dignità e il rispetto che le è dovuto. Pensiamo a cosa significa presentarsi ad un colloquio di lavoro con un documento di riconoscimento in cui non ci riconosciamo.
Siamo un Paese ancora molto transfobico ma, come è accaduto per il colore della pelle e l’orientamento sessuale, il percorso verso la comprensione del transgenderismo è iniziato: per chi oggi è bambino e ha tutta la vita davanti le prospettive si sono ormai dischiuse e un giorno si apriranno definitivamente, anche grazie a Internet, che è un aiuto importante per conoscere diritti e doveri dei cittadini, senza distinzioni.
NELLO STUDIO LEGALE, TRA IMBARAZZI E COMPETENZE
«Grazie alla rete e a strutture di eccellenza come il consultorio Dig di Salerno, oggi i ventenni hanno senz’altro le idee più chiare». A parlare è Morena Rapolla, avvocata che ha sostenuto gli ultimi esami all’università con l’aspetto femminile ma con il documento ancora al maschile. Dopo alcune porte in faccia, Morena ha avuto la fortuna di fare pratica da un’avvocata che le disse: «Il Tribunale non è un ambiente semplice ma non possiamo fare come gli struzzi». Mi racconta: «Il messaggio che ho cercato di dare fin da subito ai colleghi con cui mi confrontavo è stato: ‘Io sono qui per lo stesso motivo per cui ci siete voi’. È importante educare le persone al valore della tua professionalità, non permettere di prendersi delle libertà senza però erigere barriere. A volte mi accade di captare, in un collega che non mi conosce o un cliente che viene in studio per la prima volta, uno sguardo lievemente imbarazzato. Io li metto a proprio agio, proseguo con la mia consulenza e in pochi minuti le diffidenze svaniscono».
Poi aggiunge: «Io sono stata fortunata, ma ci sono tante persone professionalmente preparate che non riescono a mettere a frutto i sacrifici fatti e questo alla tristezza aggiunge rabbia sociale». Come Antonia Monopoli, anche Morena Rapolla sottolinea l’importanza di un titolo di studio: «Più si scende nella scala sociale delle professioni, più dalla discriminazione si passa all’esclusione».
Ivana Pipponzi, titolare dello studio in cui Morena esercita oggi, è anche Consigliera di parità della Basilicata e si occupa dunque di discriminazione di genere nel mondo del lavoro. «Nella nostra regione stiamo facendo molto per la (in)formazione nelle aziende e nelle agenzie interinali e la risposta è positiva, ci sottopongono molti quesiti ed è segno che rispondiamo ad una domanda reale di conoscenza; le richieste di assunzione sono però ancora poche perché pochi sono i coming out».
Per quanto riguarda la sua collaborazione con Morena, Ivana non ha mai avuto alcuna preclusione: «Per me lei era una persona, ne ho subito intuito le qualità professionali, che a distanza di quattro anni non posso che confermare. All’inizio alcuni colleghi hanno manifestato delle perplessità fondate unicamente sul pregiudizio ed è stata Morena stessa a smentirle con il tempo, facendosi semplicemente conoscere per la persona preparata e colta che è».
Qui si può scaricare una guida orientativa sul genere per fare chiarezza tra differenze e terminologia.