articolo che ho pubblicato su Letteradonna/Elle.

Nell’aprile 2014 la frase «il ministro Madia ha partorito» fece sorridere molti quando ne titolarono i giornali, ma ci fa capire quanto ancora la narrazione del lavoro delle donne risulti paradossale.
Chi resiste al cambiamento in atto nell’uso della grammatica corretta per identificare le professioni al femminile (ministra, ingegnera, avvocata ecc.) adduce spesso motivazioni linguistiche, senza sapere che proprio dalla più antica e prestigiosa istituzione linguistica italiana ci arriva la sollecitazione al cambiamento. È infatti dall’Accademia della Crusca (che raccoglie i maggiori esperti di linguistica e filologia della lingua italiana ed è riconosciuta a livello internazionale) che giungono le sollecitazioni a riflettere sulla declinazione al femminile delle professioni, in linea con le istanze sociali che chiedono linguaggi più rappresentativi e rispettosi delle donne.

LE ISTITUZIONI SI IMPEGNANO

Anche le istituzioni stanno rispondendo al cambiamento culturale in atto, nominando le donne nei loro ruoli con correttezza: consigliera, sindaca, assessora, stanno entrando nel linguaggio verbale ma anche nei protocolli, le circolari, i comunicati degli uffici stampa. Nel 2015 in Piemonte, su mozione della consigliera comunale Laura Onofri, si è aperto un percorso che ha coinvolto amministrazione, città metropolitana, Regione e Università e che ha portato alla Carta di intenti Io parlo e non discrimino, rivolta non solo agli enti ma anche alle aziende e ai soggetti privati «che vogliano impegnarsi in questo importante cambiamento formale», si legge nel testo; hanno attuato il linguaggio di genere «negli atti, nella documentazione, nella modulistica e nella comunicazione», in linea con le direttive ministeriali del 2007 del ministero delle Pari opportunità.

MA IL «SUONA MALE» PREVALE SUL BUON SENSO

Le resistenze sono ancora molte perché è difficile sconfiggere le abitudini, e allora il «suona male» prevale sul buon senso e persino all’università di Milano Bicocca che ha un dipartimento molto attivo sulle politiche di genere una studentessa viene ancora proclamata con il titolo di Dottore.
A Bergamo le architette sono riuscite ad ottenere dal proprio ordine il timbro con la dicitura Architetta, grazie all’impegno di Francesca Perani, fondatrice di Rebel Architette, una rete di creative italiane impegnata per il riconoscimento pubblico del talento femminile dell’architettura. Quarantacinque anni, una lunga esperienza di studio e lavoro, dal Politecnico di Milano a scuole europee e non solo, professionista dal 1999 in Italia e all’estero, Perani ci racconta difficoltà e obiettivi di questo percorso.

REBELARCHITETT Eott2017

DOMANDA: Vi chiamate «architette»: quante resistenze incontrate da parte di chi lo considera un dettaglio?
RISPOSTA:
Moltissime. E anche dalle donne, anzi soprattutto da loro. Quando a marzo 2017 sono stata tra le promotrici dell’ufficializzazione del timbro al femminile la notizia è stata fortemente diffusa su testate nazionali, di settore e non, come un risultato positivo a favore della categoria. Invece molte colleghe, sia giovani che mature, si sono mostrate fortemente affezionate al termine maschile e hanno mostrato in modo molto esplicito la loro disapprovazione.

D: Perché tanta resistenza?
R: Ho speso molto del mio tempo a rispondere a commenti che rivendicavano il termine al maschile perchè è considerato più autorevole. Questo non ha che confermato come intorno al termine ci sia ancora tanto da lavorare e da dibattere. Capisco alcune resistenze, oggi sono anche io più consapevole della discriminazione che inconsciamente ho subito, ma dobbiamo fare uno sforzo in più di cui beneficiare tutte e soprattutto le studentesse in corso o le giovani professioniste maggiormente penalizzate dai colleghi per la precarietà dei tempi».

D: E lOrdine vi supporta?
R: Mentre l’Ordine degli Architetti di Bergamo conferma nelle sue attività, come l’iniziativa architetti/e nelle classi, la grandissima sensibilità nei confronti della questione di genere nella professione, dal Consiglio Nazionale degli architetti non abbiamo al momento ricevuto proposte, nonostante avessimo richiesto ufficialmente un’attenzione particolare in merito al linguaggio di genere applicato al recente Premio dellArchitetto e Festa dell’Architetto.

D: Eppure è l’Accademia della Crusca che si è espressa chiaramente, si tratta di uso corretto della lingua italiana.
R: Infatti l’utilizzo del termine Architetta, nel 2017, non può più essere ostacolato. Noi cerchiamo di velocizzare il cambiamento e speriamo con la nostra attività di favorire anche le ingegnere, le avvocate etc. Il termine al femminile rappresenta l’ascesa sociale delle donne nella professione e anziché concentrarsi sulle proprie difficoltà di autoaffermazione dovremmo indirizzare le nostre forze a favorire le nuove generazioni. Il 54% delle iscritte al Politecnico è donna (dati A.D.A Associazione Donne Architetto, ndr) e non c’è motivo oggi per non promuovere una cultura paritaria.

D: E allestero come va? In giro per il mondo ci sono dei progetti come Marion’s List, Un dia un Aequitecta, Momowo, Women Who Draw, ma il ministro dellistruzione francese ha appena bocciato la nuova grammatica inclusiva.
R:
Le resistenze ci sono come ci sono anche le disparità. Ogni anno in Gran Bretagna The Architects’ Journal e The Architectural Review commissionano un sondaggio dal più recente dei quali emerge che il pay gap è del 31%, nelle posizioni apicali, che il 72% delle architette nel mondo ha subito discriminazioni o molestie sessuali sul lavoro, che il 90% ritiene famiglia e figli un freno alla carriera.

D: E fuori dall’Europa?
R:
Negli Usa, un sondaggio dell’Aia sulle discriminazioni rivela le medesime percentuali. L’Associazione Equity by Design nel 2013 ha appurato che il 32% delle architette si perde per strada (lo chiamano «il 32% mancante») perché non regge le difficoltà. In Belgio il 52% degli studenti e’ donna, solo il 37% si iscrive all’ordine e solo il 16% riceve premi significativi.

D: Come è nata la vostra rete?
R:
Nel mio studio, condividendo tra colleghe un malessere ma anche un’urgenza di trovare soluzioni e stimoli, nonché proporre opportunità per le professioniste più giovani. L’età media del gruppo è 35 anni e siamo dislocate in Italia e in Europa. Il nostro desiderio è mostrare role models al femminile a cui possano aspirare, promuovendo la presenza delle professioniste di talento in giurie, conferenze e università, e proponendo un’attività di mentoring. È importante attenuare le motivazioni che ci portano a subire l’effetto del famoso soffitto di cristallo.

D: E il nome, Rebel Architette?
R:
Nasce dalla ribellione che si respira in ogni ambito. Si parla di bambine e principesse ribelli. Ci si ribella alle discriminazioni quando si è consapevoli del proprio valore.

D: Il prossimo obiettivo?
R:
La Biennale di Venezia 2018. Il talento femminile viene oscurato in questi grandi momenti in cui lo spazio è sempre declinato al maschile, come accade per tante professioni. Vogliamo aprire la strada per un suo riconoscimento pubblico, dovuto. La Biennale sarà l’occasione per completare Architette, un progetto della durata di un anno con 365 biografie di professioniste operanti in tutto il mondo, disponibili online sulla nostra pagina facebook e su un documento consultabile in open source. Sostengono l’iniziativa anche Europaconcorsi Divisare (il principale portale di diffusione della cultura architettonica online, ndr) che ha promosso una call aperta a cui inviare le proprie candidature.