mi scrive Giulia, 19 anni, e mi dice di pubblicare la sua storia perchè possa essere utile ad altre e ad altri. grazie Giulia.
Ho sempre visto il nostro amore come qualcosa di essenziale.
Nonostante i tanti alti e bassi che esso comporta, l’ho sempre vista come un dono stupendo, da dispensare senza limiti.
Quando poi per la prima volta lo sperimentai, credetti veramente di aver raggiunto l’apice della felicità.
Incontrai il mio primo amore così per caso. Avevo deciso di prendermi una pausa dalla disperata ricerca dell’anima gemella, finché una sera di mezza estate il fato decise di avverare il mio desiderio di innamorarmi..
Tra noi nacque subito un’intesa, quel feeling particolare che non tutte le persone riescono a cogliere.
Passai l’estate più bella della mia vita, avevo finalmente trovato qualcuno che mi facesse battere il cuore anche solo al suo pensiero.
Poi arrivò la fine dell’estate, e quando tutto sembrava finire, inaspettatamente anche questo ostacolo fu superato e l’amore trionfò ancora una volta, rafforzando notevolmente la mia tesi sull’amore.
Con lui scoprii la gioia di amare, di condividere le mie idee e di poter crescere insieme.
Con lui feci le mie prime esperienze, imparai ad amare e a confrontarmi con qualcuno.
Passai due anni stupendi, e nonostante dovetti affrontare molte difficoltà, non mi pentii mai di ogni cosa fatta.
Purtroppo scoprii troppo tardi che ciò che pensavo di amare incondizionatamente mi aveva portato inconsciamente ad ignorare tutti quei sentori di un amore che oramai stava diventando malato e opprimente.
Mi accorsi di aver messo troppe volte da parte le mie ragioni, facendo sempre prevalere ogni suo volere e desiderio.
Ma anche quando incominciai a sentire a sentire che ciò che provavo per lui, non era più amore, ma semplicemente un’abitudine, cercai di ricacciare dentro ogni cosa, cercando di auto-convincermi che fosse solo un periodo di passaggio.
Ingoiai i miei sentimenti più che potei, ma alla fine non ce la feci più.
Un pomeriggio, dopo aver finito il mio turno di lavoro, lo trovai ad aspettarmi all’entrata del locale.
Avevo ricevuto l’ennesimo torto proprio la sera prima, e questa volta, non riuscii a trattenere la mia delusione.
Gli sputai addosso la mia rabbia, la mia frustrazione, la mia delusione e il mio dolore.
Tutto ciò che avevo costruito in due anni si dissolse improvvisamente come il fumo della sigaretta che tenevo in mano.
Imprecò ferocemente contro di me, mi diede della rompi coglioni, mi disse che ero io la causa di ogni suo stress, della sua infelicità..
quelle parole crearono in me un’immensa voragine.
Aprii velocemente lo sportello della sua macchina, che ancora era impregnata della nostra rabbia, e sbattendola, mi diressi velocemente verso casa, senza degnarlo di uno sguardo. Sentii solamente le ruote sgommare ed il rumore inconfondibile della sua auto, che per due anni mi aveva fatto battere il cuore appena la sentivo avvicinare a casa allontanarsi velocemente.
Aprii la porta di casa in lacrime, nel pieno di una crisi isterica, la sbattei con forza e alzando lo sguardo verso il salotto, vidi mia mamma in salotto che, mentre prima stava cucendo silenziosamente una maglietta, ora mi guardava quasi spaventata.
Sull’orlo di una crisi isterica, sfogai con lei tutta ma mia rabbia: urlai, imprecai, dissi ogni tipo di cattiveria, di parolaccia, e piansi fino allo stremo.
Mia madre mi guardò senza dire una parola. Sentivo che provava a prendere un po’ del mio dolore e cercava di farlo anche un po’ suo, sapevo che avrebbe fatto di tutto per cercare di alleviare le mie sofferenze, ma quella voragine nel petto era la mia, e io da giovane donna, cercavo di auto-convincermi del fatto che avrei dovuto superarla da sola.
Fu proprio in quel momento che capii di dover prendere in mano la mia situazione.
Piangermi addosso non avrebbe fatto tornare tutto come prima.
Il danno era fatto, e l’amore era finito. Mi guardai allo specchio e vidi il mio viso stravolto: non avrei più permesso a nessuno di ridurmi in quello stato.
La settimana successiva al nostro bisticcio non fu affatto facile: ogni sera dopo il lavoro, mi ritrovavo al solito bar insieme a tutti i miei amici che scendevano ogni estate per passare a Viareggiole vacanze, e puntualmente ovunque girassi gli occhi trovavo sempre il suo sguardo inquisitore rivolto verso di me.
Io lo ricambiavo a testa alta, e lo vedevo sempre appostato con il suo bicchiere di digestivo in mano intento a controllare a quanti ragazzi rivolgessi la parola durante una serata al bar.
Purtroppo la forza che cercavo di trovare dentro di me spesso non bastava, e mi ritrovavo a dovermi nascondere per non dargli la soddisfazione di veder scendere ancora quelle lacrime.
Ricordo il giorno che non contento di ossessionarmi solamente la notte, lo ritrovai seduto al primo tavolo vicino all’entrata del bar dove lavoravo, pronto per ordinare il pranzo.
E perciò eccomi li, imprigionata nell’unico posto dove per otto ore al giorno riuscivo a non pensarlo insistentemente, e non pensare alla valanga di emozioni che turbavano il mio spirito, impegnata ad adempiere al mio dovere, e infastidita dai continui commenti che uscivano dalla sua bocca, detti troppo ad alta voce per non essere sentiti.
Ero arrivata allo stremo del mio contegno, sentivo la mia rabbia sul punto di esplodere, sapevo che a momenti avrei ceduto, e tuttora ringrazio la tempestività dei miei due migliori amici che allarmati dalla vista dell’inconfondibile colore della Sua moto, erano accorsi al bar per supportarmi.
Per fortuna quella fu la prima e l’ultima volta che lo trovai seduto al tavolo durante il mio turno lavorativo, nonostante il continuo pedinamento serale.
Non sapevo però che quello che mi attendeva, era solo l’assaggio di ciò che poi a distanza di pochi giorni mi sarebbe capitato..
Una sera, dopo aver cenato in compagnia della mia migliore amica, andammo a raggiungere tutta la nostra comitiva.
Fu li che lo vidi, bello da star male. Era il migliore amico di un nostro amico che scendeva a Viareggio ogni estate. Mi aveva colpito dal primo momento nel quale i nostri sguardi si incrociarono.
Per la prima volta non ebbi paura di parlare con un ragazzo senza dover poi dare spiegazioni, ed una dettagliata descrizione di ciò di cui avevamo parlato.
Mi sentivo così padrona di me, delle mie scelte, di poter fare finalmente ciò che mi andava, senza dovermi sentire in colpa per aver rivolto parola ad un ragazzo, e soprattutto riuscivo a non pensare.
Parlare con lui mi piaceva, era divertente, educato, avevamo molti punti in comune, ed era innegabilmente bello.
Iniziai a passare più tempo del dovuto con lui, mi sentivo attratta dai suoi modi, cercavo la sua compagnia, sentivo il mio cuore di ghiaccio pian piano sciogliersi e la cosa mi piaceva.
Vedevo nei suoi comportamenti ciò che volevo anch’io, una sera, decidemmo di passare insieme l’ultima settimana del suo soggiorno in Toscana.
Per la prima volta dopo molto, mi sentii bella, desiderata.
Credevo di essermi tolta finalmente il peso dell’abbandono, del dolore, e mai avrei potuto immaginare che di lì a poco, si sarebbe scatenato l’inferno.
Era il diciassette Luglio, ed io ero immersa nel bel mezzo della mia pausa pranzo nella lettura della mia pagina di Facebook.
Trovai un post di un mio amico che da vicino aveva assistito al devolversi della mia cotta estiva, e decisi di scrivergli vagamente gli ultimi aggiornamenti su quest’ultima: gli scrissi quattro semplici parole, ma sapevo che avrebbe capito immediatamente ciò di cui parlavo.
“FINALMENTE CI SONO RIUSCITA!” non sapevo che quello sarebbe stato l’inizio di tutto.
Finito il mio turno di lavoro, mi diressi a casa. Dormivo sempre un po’ prima di uscire, per cercare di recuperare le ore di sonno perso durante la notte.
Mi accoccolai sul divano e chiusi gli occhi, ma non feci in tempo a prendere sonno che sentii il telefono squillare.
Aprii un solo occhio per controllare chi fosse. Era un semplice messaggio, ma fu il mittente che mi fece balzare seduta sul divano, con gli occhi sgranati.
Aveva trovato nel messaggio che avevo scritto al mio amico il pretesto per potermi aggredire, per cercare di capire cosa intendevo dire, per poter capire cosa stesse succedendo nella mia vita.
Questa volta non cedetti alle sue maniere scontrose e alle sue provocazioni.
Gli scrissi in maniera calma, cercando di usare le parole giuste, con le quali aprirgli gli occhi su che razza di persona era, e gli dissi senza mezzi termini di far finta di non essere a conoscenza della mia esistenza. Io con lui avevo chiuso.
Il sonno che fino ad un quarto d’ora prima mi aveva avvolto, passò tutto d’un colpo, e anche se mancava ancora molto tempo prima del mio appuntamento con i miei amici, iniziai blandamente a prepararmi.
Ci trovammo tutti insieme un paio d’ore dopo, nel nostro bar, quello nel quale io lavoravo durante la giornata.
Prendemmo i soliti posti ed ordinammo. Non ricordo bene il motivo di tanta ilarità generale, so solo che una chiacchiera tira l’altra, e ad esse, il bisogno di idratare la gola veniva assecondato da un buon bicchiere di vino.
Più allegri e carichi che mai, decidemmo di cambiare bar, per raggiungere l’altra metà del nostro gruppo.
Prendemmo la macchina del nostro amico e accompagnati dal suono della radio, e dall’allegria generale ci dirigemmo verso la nuova meta.
Ammetto che li, bevetti un po’ troppo, e dopo un po’ mi ritrovai a vedere due volte tutto ciò che era nel mio campo visivo.
Riuscivo ad intendere e volere, ma il tutto era rallentato dall’eccessiva quantità di vino.
Poi tutto successe troppo in fretta, ed una serie di situazioni concatenate, mi indirizzò verso l’inferno.. ma partiamo dalla genesi.
Eravamo a fine della serata e iniziando ad uscire dal locale per dirigerci alla macchina, intravidi due miei amici, con i quali eravamo venuti in macchina iniziare a discutere.
Io non ci feci caso, accoccolata tra le braccia del mio “uscente”.
Subito dopo il mio cellulare iniziò a trillare insistentemente.
Era sempre lui, come questo pomeriggio. Aveva abbandonato il tono inquisitore, per adottare quello dolce di chi voleva avere una seconda chance.
Le mie emozioni, amplificate dall’alcol in circolo, trasformarono la rabbia che avevo provato fino al pomeriggio in ira.
Ricordo che mi disse che si trovava sotto casa mia, e mi pregava di uscire per poter chiarire i nostri malintesi.
Io, abbandonati i toni calmi del pomeriggio gli risposi bruscamente, facendogli notare che come mancava la mia moto sotto casa, mancavo pure io.
Penso che quello fosse stato uno dei molteplici sbagli commessi quella notte, perché non passarono neanche quindici minuti che lo ritrovai posteggiato davanti a me all’uscita del locale.
Per fortuna per la seconda volta di seguito, le mie amiche, allarmate dagli strani comportamenti del mio ex ragazzo, mi raggiunsero per vedere come procedeva la situazione.
In quel momento mi sentii protetta, non avrebbe mai potuto toccarmi, così sbraitando, gli ordinai di non avvicinarsi, e di andarsene.
Nonostante la sua testardaggine, seguì alla lettera ciò che gli avevo ordinato.
Mise in moto, e si allontanò velocemente dal parcheggio.
Contemporaneamente, la discussione di poco prima tra i due miei amici, degenerò, e il possessore della macchina, preso da un raptus di rabbia, e senza patente, e con un tasso alcolico troppo elevato, prese la macchina e a tutta velocità se ne andò, lasciando i cinque passeggeri a piedi.
Due dei ragazzi, cercarono di inseguirlo correndo, e presto sparirono dietro una curva.
Noi rimanemmo senza parole e con gli sgranati a guardare la scena, poco coscienti del fatto di essere rimasti completamente a piedi.
Aspettammo qualche minuto e provammo a rintracciare il nostro amico, almeno per sapere che fosse arrivato sano e salvo a casa, ma anche dopo un’insistente susseguirsi di chiamate, nessuno si fece vivo.
Ci ritrovammo così, alticci, preoccupati e appiedati.
Le mie amiche, avendo intuito la nostra situazione, e il pericolo che correvo se fossi tornata a piedi, cercarono in tutti i modi di convincermi a salire in macchina con loro, ma io fui inamovibile.
A parte il fatto che volevo assolutamente finire la serata insieme ai miei amici, non me la sentivo di lasciarli a piedi senza meta, e soprattutto se fossi salita in macchina in quel momento mi sarei sentita sicuramente male.
Non avevo minimamente immaginato che lui potesse ancora essere in giro in macchina, in cerca della giusta situazione per poter tornare all’attacco.
Così le mie amiche, rassegnate, lasciarono che io prendessi la mia unanime decisione.
Ci incamminammo subito dopo: io camminavo tranquilla circondata dal braccio del mio amico, rincuorando l’altro del fatto che sei chilometri a piedi non erano affatto tanti, e soprattutto che camminare ci avrebbe fatto riprendere dalla sbornia.
Mi sentivo protetta, in cuor mio sapevo che non mi sarebbe successo niente.
Non potevo manco immaginare quanto mi sbagliavo.
Eravamo a metà del nostro cammino quando una 500 bianco panna si fermò sgommando ad un paio di metri da me: pensavo che dopo le urla di mezzora prima avessi messo in chiaro come stavano le cose, pensavo che avesse capito che oramai la nostra storia era definitivamente finita.
Ma lui no, stringendomi il braccio, per la seconda volta, cercò di costringermi a salire sulla sua macchina per poter parlare di noi, quel noi che secondo lui si sarebbe dovuto ricomporre.
Io lo spinsi con il braccio che avevo libero, e lui mollò la presa. Per la seconda volta gli intimai di andarsene e di lasciarmi in pace.
In quello stesso momento, la macchina delle mie amiche si fermò poco dopo di noi, e appena scesero, Ale prese la saggia decisione di andarsene.
La situazione si stava aggravando, e credo che tutti ne sentissero il sentore, tutti tranne me, e questo fu l’ennesimo sbaglio di quella notte.
Rifiutai nuovamente l’offerta di passaggio da parte delle mie amiche, convintissima che quella sarebbe stata l’ultima volta che mi avrebbe fermato quella notte.
Iniziai a camminare e sentii le stesse braccia di prima cingermi le spalle, e di nuovo quella sensazione di protezione.
Ma si sa, le situazioni lasciate incomplete, si ripresenteranno fino a quando non saranno risolte, e così fu.
Mancava solamente un chilometro per arrivare a casa dei miei amici.
Un maledettissimo unico chilometro.
Ma nel bel mezzo di quei mille metri riuscì a trovarmi per la terza volta.
Parcheggiò nel bel mezzo della strada, scese sbarrandomi la strada e facendo forza mi strinse a se.
Gli intimai di mollarmi, cercavo di divincolarmi, ma fu inutile.
Lo pregai di lasciarmi un attimo, e lui, tenendosi sempre a distanza ravvicinata per poter essere sicuro che io non corressi via, lasciò la presa.
Mi avvicinai ai miei amici, e cercando di sorridere, gli dissi di andare e stare tranquilli, io li avrei raggiunti a breve a casa.
Non potei dire frase peggiore.
Loro titubanti ma stremati dalla camminata e dai postumi, si incamminarono piano verso quegli ultimi metri.
Mi ritrovai da sola, cercando di reagire ad una forza troppo grande.
Trovai il coraggio di guardarlo negli occhi, erano lucidi, rossi e calanti.
Sapevo che aveva fumato, lo faceva sempre quando non era con me.
Notai che in una delle mani aveva una sigaretta accesa.
Mi disse tante cose, troppe per poterle ricordare tutte, ma farò uno sforzo:
giurò di amarmi sopra ogni cosa (non sentii mai quelle parole prima di allora, non aveva mai ammesso di amarmi), per me avrebbe rinunciato a tutto, perfino al viaggio del diploma prefissato per qualche giorno dopo; mi disse di ripensarci, che senza di me nulla avrebbe avuto senso.
Vedendo che tutte le sue confessioni non avevano valore per me, desiderosa di tornare dai miei amici, decise di iniziare a minacciarmi e quelle parole le ricordo perfettamente.. “sappi che se tu non torni con me, non mi vedrai più perchè io mi ammazzo!” mi disse con le lacrime agli occhi.
Ricordo il poco tatto che usai nel rispondergli, completando il tutto con una risata disgustata “se sei veramente convinto che questa sia la soluzione al fatto che una ragazza ti abbia mollato, beh, fai tranquillamente, non penso mi resterai sulla coscienza”.
Continuò a pregarmi, a scongiurarmi e a stringermi violentemente i polsi, minacciandomi per poi continuare a supplicarmi, non accettando un semplice NO.
Cercai di essere forte, cercai di divincolarmi, ma non potevo competere con la sua forza, così iniziai a piangere.
Lui mi accarezzò, mi fece poggiare sulle sue gambe, cercò di baciarmi, ed io stremata provai per l’ultima volta lo pregai di lasciarmi andare dai miei amici.
“ti prego passa la notte con me”, fu l’ultima cosa che disse, e ricevendo il mio ennesimo no, mi prese in braccio, e senza neanche accorgermene, mi ritrovai all’interno della sua macchina.
Sfrecciava a tutta velocità verso casa sua.
Ricordo che cercai di aprire lo sportello, ma lui lo richiuse e lo blocco.
Mi sentii impotente, non sapevo cosa mi aspettava, finalmente riuscivo a sentire il peso di tutti i miei sbagli di quella sera.
Riuscivo a sentire la paura impossessarsi di me, la sentivo ghignare bastarda, sapevo di aver giocato col fuoco troppo a lungo, e alla fine mi ero bruciata.
Arrivammo davanti al vialetto di quella casa che conoscevo fin troppo bene.
Ero paralizzata dalla paura. In quel momento la prospettiva di chiarire con lui e potermene tornare a casa, mi sembrava fin troppo allettante, ma oramai era troppo tardi.
Mi aprii lo sportello e cingendomi le spalle mi fece entrare in casa, dopo di che mi portò in camera sua e mi fece sdraiare sul suo letto.
Le tempie mi pulsavano, e oramai priva di lacrime continuavo a singhiozzare questa volta supplicandolo io di riportarmi a casa.
Oramai era troppo tardi.
Si sdraiò pesantemente sopra di me ed iniziò a toccarmi dappertutto.
Ricordo che si tolse la felpa e la t-shirt, poi cercò di farlo col mio maglioncino e la mia maglia, ma io me li tenni stretti addosso.
“Non mi farai del male” pensai dopo di che ancora ignara di dove riuscii a trovare la forza di spostarlo, scesi dal letto e corsi fuori da quell’incubo.
L’immagine che vidi quando mi girai mi ghiacciò il sangue nelle vene.
Lo vidi li, davanti a me, senza maglietta e con i pantaloni sbottonati che calavano sotto il sedere.
“ti prego Ale, riportami a casa..” furono le ultime parole che gli dissi prima di accasciarmi disperata sul marciapiede.
E con tutto lo stupore che potessi provare, rientrò in casa per rivestirsi e prendere ciò che avevo lasciato.
Salimmo in macchina in silenzio, lui mi porse la borsa, e si mise il mio cellulare in tasca.
Durante la strada per il ritorno, si azzardò a chiedermi per l’ennesima volta di poterci vedere l’indomani per parlare, ed io alla fine accettai, terrorizzata dal fatto che la lunga nottata, sarebbe potuta continuare.
Arrivati sopra casa, mi chiese di potergli prestare un carica batterie, per poterci mettere d’accordo per il giorno successivo.
Ingenua, disperata, sfinita, ricordai che lui era ancora in possesso del mio cellulare.
“non stiamo più insieme, non hai più il diritto di utilizzare il mio telefono” gli dissi dirigendomi verso casa.
Credo che quella frase attirò ancora di più il suo interesse verso i messaggi che poteva contenere.
Uscii di casa poco dopo, iniziando a respirare l’aria della libertà, e della tranquillità.
Mi avvicinai alla macchina, ma non lo vidi subito, così lo chiamai sussurrando.
Poi un forte dolore alla guancia, mi costrinse a girare il collo involontariamente.
Sgranai gli occhi ed incontrai i suoi.
Non sono capace di descrivere la rabbia inumana che vidi dentro le sue iridi castane, ma sono sicura del fatto che se non avesse represso la sua rabbia mi avrebbe ammazzata di botte.
Non scorderò mai quegli occhi.
Non scorderò mai la paura che provai.
Poi parlò: mi disse che mi avrebbe ammazzato, che ero una puttana, e che me l’avrebbe fatta pagare.
Poi salii in macchina e rubandomi il telefono corse via.
Spaventata a morte iniziai a chiamare a gran voce i miei genitori, che accorsero immediatamente.
Il resto della fine di quella nottata, lo ricordo vagamente.
Ricordo le braccia calde di mia mamma, ricordo che mio papà che tornava con il mio telefono in mano, ricordò che mi sentii morire.
Poi la stanchezza, e il vuoto di un sonno senza sogni.
Dovette passare tutta l’estate prima di liberarmi completamente di lui.
Continuò imperterrito a sbucare da qualsiasi parte io mi trovassi.
Cercò di minacciare perfino il ragazzo che quella sera era tornato a casa con me.
Poi finalmente la pace.
Non mi tenni mai dentro ciò che avevo vissuto, volevo che gli altri sapessero, voglio che voi sappiate.
Non mentirò dicendo di stare bene.
Sogno, ricordo, e rabbrividisco ogni volta che ci penso.
Ho vissuto l’amore e l’ho visto trasformarsi nel mio incubo peggiore.
Ringrazio Dio ogni volta che mi viene in mente la forza che mi ha permesso di evitare di essere violentata fisicamente.
E sento che nonostante l’idea che qualcuno mi possa toccare mi disgusti, credo nel fatto che il tempo mi potrà dare l’opportunità di innamorarmi ancora, e soprattutto di poter alleviare il dolore e l’umiliazione che ancora infestano la mia anima.