articolo che ho pubblicato su La27esima ora del Corriere della Sera.
Cè una ”i” in quella sigla lgbtqia, una i di cui sappiamo poco o niente. E’ una i che riguarda dei neonati e delle neonate che nascono con una condizione biologica, non perfettamente conforme agli stereotipi culturali che identificano un corpo femminile o maschile; le variazioni possono apparire nei cromosomi di una persona, nei genitali, o negli organi interni come testicoli ed ovaie. Alcuni tratti intersex sono identificabili alla nascita, altri si scoprono alla pubertà, o più tardi nel corso della vita. Poche di queste condizioni comportano rischi scientificamente provati per la salute, ma anziché lasciare a loro il tempo per raccontare al mondo chi sono, questi neonati vengono spesso violati. Gli adulti impongono la propria scelta, e in fretta, perché c’è da presentare la creatura ad amici e parenti, c’è un nome da registrare all’anagrafe entro dieci giorni con una crocetta da porre sulla casella del sesso, maschile o femminile, altro non è previsto.
Comincia così la vita di alcune piccole persone, con una violenza che non li considera, che asseconda desideri altrui, che nega loro il diritto di essere accolti così come sono nati. Ogni storia è a se, le varianti sono tante intorno alla parola intersessualità, o intersex. Io ho incontrato Francesca (nome di fantasia) che crescendo non capiva bene il perché dei controlli, delle visite mediche, degli esami, di due interventi chirurgici subiti a 12 anni. Ha passato l’infanzia e la pre-adolescenza sentendosi dire dagli adulti una bugia dopo l’altra. Era una bambina esuberante, spigliata, a cui era proibito giocare a pallone, esprimermi attraverso la fisicità. Voleva fare judo ma le imposero di studiare pianoforte, affinché diventasse femmina anche nel senso più stereotipato del termine. Le ho chiesto di raccontarci che cosa vuole dire. Che cosa ti dicevano i tuoi genitori?
«Mi dicevano che ero nata con due ghiandoline difettate, che bisognava controllarle. Quando a 12 anni sono stata operata hanno detto che bisognava farlo per evitare che potessero sviluppare un tumore. Dicevano che dovevo fare la brava perché era per il mio bene».
E tu facevi la brava?
«Sì, ero stata educata al rispetto e all’obbedienza, così cedevo e non chiedevo di più, ma venivo sottoposta di continuo a controlli e ad esami anche invasivi. Ricordo che spesso, durante i soggiorni in ospedale, stuoli di medici intorno a me, esaminavano le mie parti intime, tutti che volevano esaminare il caso particolare. Non capivo, era bruttissimo, ma obbedivo.
Invece che interventi erano?
«Ci sono molte tipologie di intersex, nel mio caso si trattava di asportazione delle gonadi».
Sei nata con i testicoli?
«Sì. Sono nata intersex, precisamente con deficit di un enzima che si chiama cinque alfa riduttasi; ero una bambina con una clitoride, una vagina, ma anche dei testicoli internalizzati. Nel mio caso la variazione si manifesta alla pubertà, e non si sa in quale direzione possa andare la persona. Avrei potuto crescere come sono o invece andare in una direzione più maschile dello spettro del genere. Invece era prassi, soprattutto 30 anni fa ma ancora oggi in tanti ospedali, intervenire chirurgicamente sui neonati o prima dello sviluppo, questo senza informare la persona, senza il suo consenso e senza il rispetto della sua scelta».
Come mai?
«Non esistono leggi specifiche che tutelino questi minori e proibiscano gli interventi dettati da motivi culturali, ove ovviamente non ci siano rischi per la salute. In Europa solo Malta ha prodotto una legge in materia che ha vietato questi interventi. I medici quindi molto spesso continuano semplicemente a fare come si è sempre fatto. E’ come se la cosa più importante fosse registrarti all’anagrafe invece che rispettarti come persona. E i genitori che si sentono dire che si deve fare, lo fanno».
Beh, è difficile trovarsi preparati a una situazione del genere, immagino ci si affidi ai medici con fiducia.
«Infatti è proprio questo che accade. I genitori sono sotto shock, si aspettano un maschio o una femmina, non qualcosa che gli viene presentato come difettoso. Gli si chiede di prendere decisioni difficilissime in poco tempo. E poi gli si raccomanda il silenzio, per non turbare la crescita».
Ti è mai capitato di sentire una frase di troppo dai tuoi genitori e insospettirti?
«No. Ma ricordo che la sera prima dell’intervento l’infermiera venne a depilarmi il pube, quando io le chiesi il perché mi rispose con un sorriso sornione Dai, perché non lo sai? Allora io chiesi spiegazioni sul tipo di operazione e lei ancora disse Davvero non lo sai? Di fronte alla mia insistenza quasi si arrabbiò e mi impose di sottopormi in silenzio alla sua opera. Provai un profondo senso di disagio e di ingiustizia. Piansi di nascosto e il giorno dopo fui operata. Non solo fanno delle cose su di te senza il tuo consenso, ma non sai nemmeno il perché e cosa stia accadendo al tuo corpo. Così hai solo ansie, paure e sensi di colpa, senza sapere nemmeno per cosa».
Potresti anche avere un sostegno psicologico.
«A seguito dell’intervento mi hanno mandato a un colloquio con una psicologa, un unico incontro, ma mi ha sottoposto ai classici test con le macchie e simili; mi ricordo che quando tornai a casa entrai nello studio di mio padre, che era alla sua scrivania. Mi chiese se la psicologa mi avesse detto che non avrei potuto avere figli. Dissi di no. Dopo quella rivelazione andai in bagno e spaccai il porta asciugamani con violenza e per questo dopo fui rimproverata».
Ma nemmeno tua madre ti aveva mai parlato di sviluppo, pubertà mestruazioni?
«Mai, mi ha detto di recente, perché siamo riuscite a parlarne dopo 20 anni, che aveva seguito le raccomandazioni dei medici, che aveva seguito il protocollo. Mantenere il segreto, questo era fondamentale. Intanto a me cambiava la voce, si mascolinizzava, e non capivo perché. Dall’età di 12 anni prendo farmaci per il controllo ormonale. Le mestruazioni non le ho mai avute, e le aspettavo con impazienza.
A quell’età si aspettano per diventare grandi.
«Sì, a un certo punto ero l’unica che non le aveva avute e mi ricordo che alle superiori, se una compagna chiedeva un assorbente io fingevo di cercarlo nello zaino e poi dicevo “Mi dispiace non ce l’ho”. Se non stavo bene fingevo di avere il ciclo, inventavo. Volevo conformarmi, non volevo sembrare diversa».
Quando ti hanno detto la verità?
«Mai. L’ho scoperto da sola, a 20 anni, in un modo orribile, quando mio padre è morto in modo improvviso. Sistemavo delle carte nel suo studio e ho trovato una cartelletta che mi riguardava. Sono rimasta immobile in quella stanza, con la cartella in mano. C’era scritto che ero nata con un corredo cromosomico xy e altre cose che non sapevo cosa volessero dire, ma mentre davo un senso a quello che mi era successo pensavo proprio che non avesse senso. Mi prese un attacco di panico».
E tua madre?
«Ero molto arrabbiata, e lei poveretta non sapeva nemmeno darmi spiegazioni, aveva fatto opera di rimozione. Credo perché per lei fosse forte la vergogna di aver messo al mondo una figlia imperfetta. Tutto ciò che è legato al genere soffre di un forte condizionamento culturale e ciò che esce dagli schemi è spiazzante quasi deviante. Anche io dopo averlo saputo ebbi paura. Salvo pochissime eccezioni ho custodito quel segreto per altri 20 anni».
Non l’hai detto a nessuno fino ai 40 anni?
«Proprio così, non ne ho parlato nemmeno con mio fratello, solo con due o tre persone nell’arco di vent’anni. L’anno scorso ho cominciato a fare coming out «morbido» come lo chiamo io e mi ha fatto sentire più sicura. Prima pensavo di dover nascondere un segreto terribile, la vergogna aveva preso il sopravvento. Soffrivo d’ansia, avevo poca stima di me stessa. La vergogna ti fa sentire in colpa e avevo paura di subire del male se fossi stata scoperta. Le prime volte che finivo su un sito che parlava di intersex chiudevo subito, in preda al panico».
Quando l’hai scoperto non hai pensato a un supporto psicologico?
«Sì, andavo dalla psicologa, vivevo troppo frequentemente situazioni di grande malessere, era tutto un cadere e rialzarmi, cadere e rialzarmi. Ho sentito dire che le persone intersex sono molto resilienti, sicuramente è una facile generalizzazione, ma io ho dovuto imparare ad esserlo. Ma nemmeno quella psicologa era informata, me ne rendo conto oggi, lei mi aiutava genericamente e dunque alimentava quel segreto. Mi diceva proprio: “Lei non deve sentirsi obbligata a parlarne, nemmeno con il suo ragazzo”».
E come sei arrivata al coming out?
«Dopo alcuni anni senza seguire alcuna terapia psicologica mi sono trovata in un momento di difficoltà dopo la fine di una storia d’amore. Così ho cercato uno psicologo, navigando in internet; tra tanti medici ce n’era uno che tra le specializzazioni aveva scritto intersex, e ho scelto lui. Fin dalla prima seduta mi ha dato delle indicazioni illuminanti su tante cose che mi erano accadute, non solo a livello psicologico ma anche fisico e medico. E ho iniziato un nuovo percorso di consapevolezza e superamento del trauma».
Come ci si sente dopo così tanto tempo a dire al mondo qualcosa di così intimo su di sé?
«Le prime persone a cui l’avevo detto, dopo i 20 anni, quando era ancora un segreto, non erano preparate, si sono allontanate, anche una mia cara amica. Non è facile capire. Il coming out ora invece mi ha rassicurata, capisci che ci sono delle aree di sicurezza, che ci sono persone che non ti respingono, amici o fidanzati che non si allontanano, che continuano a volerti bene. E se c’è qualcuno che se ne va, il fatto mi da la misura di che persona sia, e mi dico “Chi se ne importa?”».
Quindi fondamentale è la competenza medica?
«Sì. Il mio psicologo è preparato, mi supporta e mi è di grande aiuto. Mi sono rivolta anche a un endocrinologo specializzato in intersex e ho capito che mi avevano sbagliato la diagnosi».
Come sbagliato?
«Sì, sbagliato. Mi è stato confermato anche da altri medici successivamente, sempre specializzati sull’intersessualità. Inoltre negli ultimi 15 anni avevo assunto farmaci sbagliati perché avevo incontrato medici non competenti, ed io che vivevo nella rassegnazione, accettavo tutto come se cadesse dal cielo. Il mio corpo è parzialmente resistente al testosterone. Avendo subito l’asportazione delle gonadi devo assumere ormoni, fondamentali per il metabolismo umano, il tessuto osseo e anche per il tono dell’umore. Nel mio caso ho bisogno di estrogeni. Per anni ho assunto anche progesterone che non serve in una donna con le mie caratteristiche, ma che anzi mi dava effetti collaterali come vertigini e capogiri, e disturbi del sonno e dell’umore durante i periodi di sospensione».
Come è possibile sbagliare farmaci così invasivi?
«Queste cose accadono perché esiste una scarsa conoscenza della tematica intersex e qualche medico preferisce tenersi il caso succulento pur non essendone competente piuttosto che cercare altri consulti. E la segretezza e la vergogna mi resero passiva di fronte a quanto succedeva. Mi è capitato anche solo un paio d’anni fa di essere sottoposta alla solita visita di routine affidata all’ennesima nuova specializzanda che mi fa fatto domande assurde di cui oggi sorrido. Mi ha chiesto se avevo peli sulla schiena o perché avessi la carnagione così olivastra. Ho risposto “Perché sono meridionale”! Era ridicola. Mi sentivo trattata come un giocattolo».
E’ terribile.
«Capisco che il sapere medico è qualcosa in continua trasformazione, ma il modo in cui sono stata trattata ha il sapore del torto e ha prodotto un susseguirsi di traumi. Fondamentale per me è stato incontrare altre persone che vivono la mia realtà o condizioni simili alla mia. All’inizio quando incontravo una nuova persona piangevo piena di commozione come se avessi ritrovato una sorella o un fratello. Sono infinitamente grata a loro ed agli alleati medici, psicologi e ai ricercatori che lavorano per migliorare il benessere delle persone intersex».
Cosa vorresti dire alle persone che vivono un’esperienza simile alla tua?
«Non sei solo, non sei sola, non sei invisibile. Cerca un gruppo di supporto o una community, esci dall’ombra e unisciti a noi».
La ricerca, le associazioni
Sono passati più di 40 anni dalla nascita di Francesca eppure ancora oggi la vita delle persone intersex è affidata al caso, dalle conoscenze dei genitori, dalle competenze dei medici a cui si affidano e dalla cultura in cui si è immersi, che definisce le aspettative sociali e fisiche di chi dev’essere per forza maschio o femmina. «E’ impossibile generalizzare, per la natura complessa della tematica», dice Marta Prandelli, ricercatrice esperta intersex. «Quel che è certo è che si tratta di una questione dalle molte sfaccettature che coinvolge diversi aspetti – medico, psicologico, sociale e legale sono solo quelli principali – ma che è ancora principalmente “gestita e trattata” da un punto di vista medico. Nonostante questo, non è materia basilare di studio universitario, ci si laurea in medicina spesso sapendo poco o nulla di queste tematiche e quando si entra in ospedale il come affrontare queste nascite dipende dall’esperto che si affianca, se portatore di vecchie teorie medicalizzanti o se all’avanguardia». «A livello nazionale e internazionale – continua Prandelli – c’è un problema di mancanza di dati ufficiali, non vi è una ricerca organizzata che tracci i percorsi delle persone intersex e gli effetti a lungo termine delle terapie ormonali, degli interventi chirurgici o dell’assenza degli stessi. Storicamente i medici che hanno seguito le persone non hanno tenuto database ufficiali e ancora oggi condividono con i colleghi o con i ricercatori solo alcuni dei casi più eclatanti, prevalentemente in gruppi ristretti di pochi esperti».
«Spesso le linee guida sono ancora influenzate dalle teorie di John Money su cui si basava la prassi di intervenire chirurgicamente entro i primi 18 mesi di vita, mantenendo il segreto degli interventi con i neonati operati, i quali da adulti non capivano il senso e la storia delle loro cicatrici. Teorie degli anni ‘50 smentite dalle vite di quegli stessi neonati che crescendo si sono ribellati a ciò che era stato loro imposto -continua Prandelli -. Ancora oggi sentiamo parlare di un disordine (in medicina la dicitura ufficiale è Disorders of Sex Development (DSD) – Disordini dello sviluppo del sesso) di qualcosa da curare, da correggere, mentre le persone intersex potrebbero crescere così come sono nate, senza necessità di alcun intervento se non volontario, in età adulta, poiché ogni caso è a sé e perché nessuno degli interventi principali è da considerarsi salvavita».
«È qualcosa che esiste da sempre – continua Prandelli – solo che a inizio secolo queste variazioni delle caratteristiche del sesso biologico passavano pressoché inosservate, nel caso di ambiguità visibili erano le levatrici, i nonni, i genitori o i padrini/madrine a preoccuparsi di affermare un genere e dunque un ruolo sociale. Non c’erano controlli neo natali e la medicina non aveva ancora fatto i passi che hanno segnato la seconda metà del novecento. Anche nella seconda metà del secolo comunque a scegliere erano spesso i medici senza nemmeno informare i genitori, e quando li informava chiedevano il silenzio dopo l’intervento chirurgico (anche sulla somministrazione di farmaci che venivano fatti passare come vitamine o altro), dicendo che era meglio fare finta che i figli fossero nati così, con i genitali interni o esterni modificati dall’intervento chirurgico».
Prandelli afferma che spesso sono i medici a guidare la scelta dei genitori, ma a volte sono gli stessi genitori che chiedono ai medici di dare loro una soluzione perché non prendono in considerazione la possibilità che la loro creatura non rientri in una delle due caselle, maschio o femmina. A casa è tutto pronto, un corredino, una cameretta, un fiocco azzurro o rosa. Sono ancora saldi gli stereotipi che ci affibbiano colori e i giochi che a loro volta impongono ruoli, comportamenti, destini. La sua ricerca ha approfondito proprio l’aspetto genitoriale e le aspettative socio-culturali, le difficoltà, le resistenze, i punti di forza e le consapevolezze di chi si trova completamente impreparato a una situazione che destabilizza poiché non vi è corso preparto che ipotizzi la possibilità intersex, che ne faccia comprendere le molte sfaccettature, che chiarisca che non si tratta di una malattia ma di una variante biologica congenita di fronte alla quale si può scegliere di non agire, rispettando la persona che si è messa al mondo e lasciandola crescere in modo del tutto naturale. «Ho lavorato in ambulatori pediatrici e mi è capitato di vedere medici cercare di procrastinare un intervento di fronte alla fretta dei genitori di dire “è un maschio” o “ è una femmina”. C’è un problema culturale da affrontare, l’attivismo intersex è ancora molto giovane. Per i genitori è indispensabile un supporto psicologico specializzato, sia per come parlarne con i propri figli sia tra loro. Il tabù spesso impedisce un dialogo sereno tra gli stessi adulti, raramente la cosa si racconta ai parenti, ai nonni, agli amici o alla scuola, un po’ per riserbo, un po’ per proteggere figli e figli da giudizi o atteggiamenti compassionevoli e stereotipati».
Nel mondo si comincia a parlare più serenamente di intersex, grazie anche a coming out di persone note, come la modella Hanne Gaby Odiele. Uscire dal silenzio, portare le proprie storie rivendicando la propria dignità e il proprio orgoglio di essere se stessi è la strada per scardinare ogni tabù. In questo oggi la rete può fornire supporti utili di conoscenza, consapevolezza e aggregazione.
Per approfondimenti possono essere utili i seguenti siti in lingua italiana: www.intersexesiste.com
www.intersexioni.it
www.oii-italia.org
C’è inoltre un gruppo Facebook che si chiama Intersex Italia
Un film che personalmente ho trovato molto bello è «Arianna» di Carlo Lavagna.