Esattamente tre anni fa, nel settembre 2012, usciva Non lo faccio più, meno di cento pagine frutto di 2 anni di ricerca.
Quando nell’ottobre 2010 ho deciso di scriverlo, accadeva qualcosa di singolare. Quando mi rivolgevo a qualcuno per un’intervista, che fosse uno psichiatra o un funzionario del ministero di giustizia minorile, la domanda che quasi tutti mi porgevano era Perché? Cioè “Perchè vuole scrivere un libro sullo stupro?”
Di stupro allora non si parlava, così come le notizie di femminicidio finivano ancora in trafiletti nelle pagine dei quotidiani locali. Non c’era ancora stato il 13 febbraio, con cui il movimento Se non ora quando ha portato in piazza migliaia di donne -e uomini- contro una rappresentazione delle donne sempre più sessita e svilente. Con cui ha riaperto un confronto pubblico su tutti i temi che riguardano le relazioni tra uomini e donne, non ultimo il tema della violenza, appunto.
I miei interlocutori mi chiedevano se io avessi subito uno stupro, se fosse capitato alle mie figlie, ad una sorella, una cara amica. Insomma cinque anni fa pareva davvero strano che una persona qualunque desse così tanta importanza a questo argomento per chiedere -molto insistentemente- di parlare addirittura con gli uomini in carcere.
Mi ci sono voluti mesi su e giù tra Milano e Roma per avere le autorizzazioni per entrare in carcere, per ascoltare gli autori della violenza, per entrare in contatto con quel maschile che mi pareva chiaro fosse il soggetto principale dello stupro, di cui la vittima subisce l’azione. Che indagare il maschile fosse prioritario rispetto a tutto, fosse il nocciolo della questione, fosse un passo indispensabile che volevo diventasse collettivo attraverso -anche- quelle pagine pregne di pensieri ed emozioni, mi pareva ovvio, ma non lo era per molti.
Se decidessi oggi di scrivere la stessa cosa quelle domande non mi sarebbero fatte, ne sono certa. Sarei semplicemente una giornalista interessata a parlare di violenza contro le donne, in particolare tra i giovani. In cinque anni questo paese è cambiato o almeno la violenza che è sempre stata un argomento tabù, chiuso nei centri antiviolenza, nelle carceri come nelle comunità di recupero, è stata pubblicamente nominata.
Oggi che lo stupro sia un problema per le donne e le ragazze di questo paese lo possiamo dire, e anche se siamo tristemente ancorati al pregiudizio e al giudizio verso un femminile destinato ad espiare colpe, almeno non facciamo più finta che tutto vada bene per poterci girare serenamente dall’altra parte.
Per questo nonostante tutte le contraddizioni e le difficoltà che un movimento esteso come Se non ora quando ha portato con sé, sono ancora infinitamente grata a coloro che lo hanno fondato e a coloro che come me lo hanno accolto e fatto proprio, trascinando con sé anche donne e uomini in tutt’altre faccende affacendati.
Tre anni fa pensavo di pubblicare un libricino che aiutasse ragazzi e ragazze a capire che cos’è uno stupro per lei e per lui, che cosa rimane addosso, a lei e a lui, per poter scegliere di essere altro; pensavo di fornire uno strumento ad insegnanti e genitori per parlare di cose di cui non si sa mai come parlare senza fermarsi ai luoghi comuni o alle semplici raccomandazioni.
Mai avrei pensato di andare personalmente nelle scuole, di girare l’Italia tra licei, istituti professionali, associazioni, cittadinanze radunate in biblioteche o sale consiliari. E’ stata un’esperienza molto bella, che mi ha fatto incontrare persone splendide (alcune mediocri ma soprattutto splendide) ma che mi ha fatto anche capire i limiti di tutto questo: senza un’assunzione di responsabilità da parte di chi ci governa (e una ministra delle pari opportunità!) continueremo a illuderci di poter cambiare un paese che per cambiare ha bisogno di soldi. Soldi. Euro. Risorse da investire nelle istituzioni tutte, dagli ospedali alle aule di tribunali, nella scuola soprattutto, perchè lì vivono gli uomini e le donne di domani.
Come ho scritto a fine luglio qui, Ogni 25 novembre l’Italia si mobilita in centinaia di iniziative ma poi i finanziamenti per i progetti non arrivano, la formazione -anche nell’avvocatura e nella magistratura- non si fa, le risorse necessarie per cambiare una cultura insopportabile vengono sempre destinate ad altro. Per questo boicotterò gli incontri istituzionali quest’anno, sia come relatrice che spettatrice, nella mia personale manifestazione di insofferenza per un’immobilità isituzionale intollerabile.
Ho scritto che invece che organizzare singoli incontri a porte chiuse, vorrei che la società civile che ha riempito le piazze il 13 febbraio ritornasse in piazza per dire che lo stupro è stupro e non vi sono scuse o attenuanti da invocare, MAI. Qualcuno dice che allora c’era un nemico di nome Berlusconi e che contro lo stupro le piazze non si riempirebbero. Forse è vero, forse no. Di certo serve qualcosa di corale che coinvolga donne -e uomini soprattutto- che di violenza non si occupano, che ai convegni non ci vanno, ma che di fronte ad una notizia di stupro non stanno dalla parte dell’autore ma della vittima, che di fronte agli sproloqui su shorts e minigonne sanno perfettamente che non sono/dovrebbero essere le ragazze a sentirsi in colpa.
Mi auguro che nelle piazze di ogni città e paese ci si mobiliti per ritrovarsi in strada e parlarsi, senza politici in prima fila e discorsi di benvenuto, ma tra uomini e donne che condividono vite, lavori, spazi che possono diventare luoghi dove si vive meglio, ci si rispetta di più, a beneficio di tutti.
Come? Ognuno può inventarsi qualcosa.
Vi faccio un esempio: nel video che segue siamo a Bitonto, cittadina pugliese che mi ha accolto in più occasioni per parlare di violenza nelle scuole superiori. Per iniziativa dell’associazione Io sono mia, Il 25 novembre dello scorso anno a Bitonto le vittime di femminicidio sono state rappresentate così; a quella data erano 132, una ogni tre giorni, e 132 donne hanno sfilato, per ricordare che ogni notizia di femminicidio è un corpo senza vita, senza più respiro, senza più voce. Guardate questo video, dove a parlare è il silenzio.
Ecco, questo è un modo, un modo per far si che anche chi passa di lì, chi si affaccia a una finestra, si accorga di quelle donne, non le dimentichi, e l’indomani ne parli, in tavola, dal fruttivendolo o al bar.