articolo che ho pubblicato su LetteraDonna/Elle.
«Si sono verificati già episodi di bullismo e soprattutto attacchi violenti verso i docenti e minacce come ‘Non arrivi a fine anno’, ‘Ti faccio un culo così’, e via dicendo. Come può immaginare a una donna quali insulti si possono rivolgere se non quelli legati al suo genere? A me e ad altre colleghe sono stati affibbiati epiteti come ‘troia’ e ‘puttana’. Io vorrei rieducare questi ragazzi, non solo punirli per ciò che hanno fatto e continuano a fare. Anche perchè la punizione non spiega il motivo per cui certe parole, soprattutto se rivolte ad una donna, pesano e fanno male (poi una si porta a casa queste umiliazioni, non è facile lasciarsi tutto alle spalle!). Accetto ogni tipo di consiglio che lei voglia fornirmi per aiutare questi ragazzi e far sì che possano inserirsi positivamente nella società, ora e in futuro».
Ho ricevuto questo messaggio a seguito di una formazione insegnanti sulla violenza di genere che ho tenuto un paio di mesi fa. Del bullismo sugli insegnanti si parla poco. Se è il bullismo tra pari a provocare ovviamente le ferite più profonde e le conseguenze più gravi, non significa che gli adulti coinvolti non ne soffrano. Pur sapendo decodificare ed interpretare i comportamenti dei propri alunni, una violenza fa sempre male. Il perché degli insulti? Intervenire tra compagni che si mettono le mani addosso, rimproverare frasi violente e minacce nonché difendere le ragazze dai palpeggiamenti tra i banchi. La minaccia «Ti mando l’Isis» arriva da una ragazza, ma questo atteggiamento è più che altro maschile e arriva da soggetti di diversa nazionalità, compresa quella italiana. E non stiamo parlando di zone degradate di periferia, ma di una tipica cittadina del Nord Italia. D’altronde, leggiamo che sono ragazzi italiani e «di buona famiglia» quelli di Vigevano, tutti tra i 13 e i 16 anni, che in questi giorni ci hanno fatto scoprire spaccati di crudeltà difficili da immaginare.
LEI NON SA CHI SONO IO
Ma cosa rende i ragazzi così spavaldi, a volte fin dalla scuola media o addirittura dalla primaria, dove ci sono bambini che al maestro o alla maestra fanno il dito medio? Forse la domanda da porsi non è «Cosa?», ma «Chi?». Certo, nei media si è diffusa una violenza verbale che solo pochi anni fa sarebbe stata inaccettabile. Nei talk show come nel web sono gli adulti i primi a fare dell’insulto un elemento comune della comunicazione (si legga Parole tossiche della sociologa Graziella Priulla, edizione Settenove), ma la risposta in molti casi è: «I genitori».
Questa prof mi racconta di genitori convocati e mai presentatisi a scuola; di genitori convocati dopo che il figlio 14enne aveva usato la frase «Prima o poi la violento» e che hanno minacciato una denuncia per falso; di un padre che di fronte alla minaccia di una sospensione si è rivolto al figlio dicendo: «Sai che ti dico? Invece di una settimana stai a casa due! Lo facciamo vedere noi a sti sapientoni che danno note come alle elementari».
LA PASSIONE SI SENTE
La preoccupazione della sapientona in questione, nonostante la fatica e il disagio che gli insulti lasciano addosso a prescindere da chi te li rivolga, nonostante le minacce più o meno velate di violenze anche fisiche, la sua preoccupazione è rivolta ai ragazzi e al loro disagio, al loro felice -o infelice- inserimento nella società fuori da scuola, dove tutto si complicherà. Ammette che alcuni colleghi cedono allo sconforto e al clima forcaiolo rispondendo agli insulti con altri insulti, ma lei, come altri, non smette di sperare e di riunirsi in consigli straordinari per ingegnarsi nel trovare soluzioni alternative a note e sospensioni. Si chiama passione: per il proprio lavoro, per la vita, per un mestiere difficile in cui non sempre prevale la fiducia nei ragazzi e nelle ragazze. Ma, quando la incontri, è meraviglioso.
FIDUCIA RIPAGATA
Ricordo una prof che mi scrisse: «Nessun ragazzo in questa scuola leggerà mai un suo libro, ma venga lo stesso per favore. C’è tanto sessismo, c’è tanta omofobia». Ci sono andata, in quella scuola con le svastiche incise sulle sedie, e abbiamo parlato, anche animatamente, per tre ore. Quando la campanella delle 13 è suonata, nessuno si è alzato fino a che non ho concluso il mio intervento. Grande stupore tra alcuni docenti presenti, ma non in quella prof che nei suoi ragazzi ha riposto fiducia, appunto.
DA UN ESTREMO ALL’ALTRO
Nelle scuole di tutta Italia, in qualsiasi scuola, incontro ragazzi e ragazze avidi di sentimenti e di pensieri, di alternative al recinto in cui noi adulti gli abbiamo intrappolato i sogni. E incontro insegnanti -sempre in qualsiasi scuola- che, in assenza dell’educazione di genere nello standard della proposta formativa, fanno il loro mestiere senza dimenticare che sono lì per educare, ovvero «promuovere con l’insegnamento e con l’esempio lo sviluppo delle facoltà intellettuali, estetiche, e delle qualità morali di una persona, spec. di giovane età» (Treccani). Il corpo insegnanti, ingiustamente intoccabile quando alle elementari ci andavo io, è oggi esageratamente sotto accusa, costantemente giudicato da un esercito di genitori pronti a difendere i propri figli (e sé stessi) da ogni rimprovero, da ogni richiesta di assunzione di responsabilità.
IL TEATRO DELL’ASSURDO
Quando, durante la stesura di Non lo faccio più, ricevetti dal Dipartimento minori del Ministero di giustizia il permesso di intervistare i minorenni autori di stupro in tutta Italia, non ci fu nessun genitore che firmò l’autorizzazione – non utilizzavo telecamere o registratori, solo carta e penna- e così riuscii a parlare soltanto con maggiorenni.
Molte psicologhe dei servizi sociali mi dissero che le famiglie erano poco collaborative nei percorsi di recupero e impazienti solo di dimenticare. Una giudice mi disse che, a ogni udienza per reati di stupro di gruppo, assisteva da trent’anni allo stesso teatrino tra le coppie dei genitori convocati: i genitori di ogni ragazzo non facevano che screditare i genitori degli altri, in attesa fuori dall’aula del loro turno. La responsabilità del reato non era mai del figlio, ma dell’influenza negativa che su di lui avevano gli amici maleducati da altri adulti incapaci.
IL RISPETTO È UN SENTIMENTO
Ma dove sta il confine tra il naturale senso di protezione verso i figli e la paradossale complicità che impedisce a tutti di assumersi la responsabilità di stare al mondo, di occupare uno spazio che non può oltrepassare i confini dello spazio altrui? Di provare rispetto, che altro non è se non un sentimento positivo, che nasce dal riconoscimento del valore dell’altro, dei tuoi compagni come dei tuoi prof? E se nessuno e niente ha valore, come puoi averne tu? E se tu non hai valore e non ne ha il mondo che ti contiene e in cui porti te stesso, come poter amare, ammirare, costruire relazioni, avere cura di? Avere cura anche di quei genitori che oggi ti permettono di distruggere, umiliare, insultare, violentare, senza chiedersi se dietro questi comportamenti non ci sia una solitudine insopportabile a cui solo la rabbia può dare respiro? Perché solitudine e rabbia sono i sentimenti che ho incontrato in carcere e che ritrovo in certi interventi o messaggi in cui gli adolescenti mi raccontano qualcosa di sè.
A OGNUNO IL SUO MESTIERE
Il bullismo sui prof è in aumento, amplificato anch’esso dal web che esporta la violenza dalla classe al mondo intero. Ma quella prof che si porta a casa la pesantezza degli insulti mantiene viva la sua fiducia nei ragazzi e si prodiga comunque per essergli d’aiuto; e non è la sola. Eppure, a volte, proprio gli/le insegnanti che propongono l’educazione di genere vengono ostacolati dai genitori (condizionati dalla propaganda cattolica integralista) come se parlare in classe di sessualità, rispetto, relazioni, non fosse l’unica alternativa all’ auto-formazione selvaggia su internet, tra pornografia e violenza.
Ma perché non provare a fidarsi degli insegnanti? Perché non fare un passo indietro come genitori e lasciar fare alla scuola ciò che nonostante tante difficoltà sa fare?
È attraverso l’educazione di genere che si mettono in pratica le belle parole che si firmano ad inizio anno scolastico nei «patti di responsabilità scuola-famiglia».
È attraverso nuove alleanze genitori-insegnanti che possiamo restituire ai nostri figli esempi di relazione e fiducia a cui poter attingere. Per crescere meno arrabbiati e vivere esistenze migliori.